Il protezionismo è “fuori moda”: chiudere i mercati non è la soluzione (studio)
E’ stato tra i temi di discussione sul tavolo del G7 che si è tenuto a maggio a Taormina. E di recente è stato indicato dalla Banca centrale europa come uno dei rischi al ribasso che pesano sulla crescita dell’economia globale. Si tratta del protezionismo. Un tema tornato d’attualità nell’ultimo periodo, diventato sempre più centrale sulla scena politica interazionale nel corso del 2016. Due gli eventi che più di altri l’hanno fatto tornare sulla bocca di tutti: il referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016, con i britannici che hanno votato a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, e l’elezione a inizio novembre di Donald Trump quale nuovo presidente degli Stati Uniti. Al tema del protezionismo Sace ha dedicato la rubrica “Sasso nello stagno“, a cura di Pietro Candia, Valentina Cariani e Pierluigi Ciabattoni.
Secondo l’istituto i due eventi in questione (Brexit e elezione Trump) hanno fatto riemergere l’idea che un maggiore nazionalismo (commerciale e politico) possa essere un fattore di protezione dell’economia locale e di rilancio dell’attività economica. Non a caso il tema del protezionismo sta riscuotendo ampio supporto nei paesi avanzati, in particolare in quelli in cui è più impellente la necessità di stimolo della crescita.
E ripercorrendo la recente storia, Sace osserva, come in passato le politiche commerciali restrittive siano state una “tentazione”, quasi un salvagente di salvataggio in situazioni di crisi. E’ stato così nella crisi del ’29, durante le guerre mondiali e la guerra fredda. Il protezionista, come illustra il grafico “Globalizzazione e protezionismo“, era la scelta di politica economica preponderante. Questo non ha impedito tuttavia una sempre maggior integrazione dei mercati attraverso interconnessioni infrastrutturali e la progressiva globalizzazione dei processi produttivi.
Protezionismo: “chiudere” i mercati non è la soluzione
Chiudere i mercati, ricorrendo a misure protezionistiche, non è la soluzione. Anzi, è una scelta “fuori moda”. Quello che emerge dalla letteratura è che ai tempi della “iperglobalizzazione”, il protezionismo non rappresenta, osserva Sace, la migliore strategia per aumentare la competitività, proteggere il mercato del lavoro locale e rilanciare l’economia di paesi in affanno. “Lo sviluppo e la diffusione dell’Information & Communication Technology infatti ha determinato una diffusione del know-how trasversale ai confini nazionali, frammentando la produzione in diverse geografie
in base a criteri di convenienza relativi a competenze e costo del lavoro e rendendo più efficiente l’integrazione dei processi produttivi piuttosto che l’isolamento”, scrivono nello studio sul protezionismo gli esperti di Sace. Questo processo appare inarrestabile, alla luce del continuo progresso tecnologico e dell’integrazione dei paesi nelle catene del valore globale (Global Chain Value).
Il protezionismo inoltre non sembra favorire la competitività delle produzioni nazionali, poiché provvedimenti commerciali restrittivi comportano tipicamente un incremento dei costi di importazione e del prezzo dei beni esportati.